#VOLTA PAGINA

Perché abbiamo scomodato la biologia? Perché l’uomo è sia corpo che mente ed apprendono l’uno dall’altra.

Il Dottor Andrea Pianigiani, psicologo e psicoterapeuta, è il nostro specialista di fiducia: un supporto psicologico spesso può essere importante, in special modo in periodi particolarmente difficili come quelli che stiamo vivendo.

Il maratoneta, il taglia legna o la madre che rincorre il figlio al parco, per abbassare la loro temperatura corporea dovuta allo sforzo fisico, secernono un liquido, detto sudore, la cui evaporazione funziona da termoregolatore. In biologia l’omeostasi (dal greco omeo e stasi, “simile posizione”) è l’attitudine, tipica degli organismi viventi, a conservare le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne dell’ambiente attraverso meccanismi di autoregolazione. Perché abbiamo scomodato la biologia? Perché l’uomo è sia corpo che mente ed apprendono l’uno dall’altra.

Nel corpo  tendiamo al raggiungimento di un equilibrio, allo stesso modo, da un punto di vista psicologico, cerchiamo, spesso a livello inconscio, di rispondere ai turbamenti interiori riadattandoci alla nuova realtà. Tale capacità, detta anche  resilienza, rappresenta il sistema immunitario della nostra psiche. In un periodo storico come quello che stiamo attraversando adesso dove, quotidianamente, sentiamo parlare di virus, di pandemia, di contagio, diventa forse vitale riflettere sul nostro stato d’animo, sulle nostre sensazioni, sui nostri “anticorpi” emotivi. 

Il COVID-19 ci ha bruscamente catapulteto all’interno di un enorme processo di crisi. Socialmente, il concetto di crisi appare rivestito da un alone di negatività, è considerato come qualcosa da evitare, da allontanare prima possibile, e sicuramente da temere. Eppure la parola “crisi” (dal greco krisis “scelta, decisione”) rappresenta un passaggio delicato e fondamentale nel processo evolutivo dell’essere umano: l’emergere di una crisi indica la comparsa di un momento cruciale nel percorso di un uomo o di un sistema, che a partire da un “pericolo”, da una sofferenza, può riconoscere l’opportunità di un cambiamento. In un primo momento, i meccanismi di difesa appaiono inadeguati a svolgere la loro funzione protettiva, fino al punto in cui non sono più operanti: questa impasse è una condizione che produce un’intensa riattivazione dei propri conflitti, finendo per confrontarsi con una profonda trasformazione. Quindi, sembra evidente come questa fase contenga intrinsecamente una speranza latente di rinascita, di rinnovamento. 

Tutto ciò però non avverrà per magia o per osmosi. Durante questo anno, nella mia esperienza clinica, molti pazienti hanno reagito al primo  lockdown cogliendo l’aspetto fascinoso della novità, assaporando la solidarietà del “mal comune”, riscoprendo l’intimità familiare e la creatività fuori dal balcone. Uno striscione colorato di speranza ha racchiuso per mesi un desiderio, un’illusione…”andrà tutto bene”! Seduti su fragili certezze ci siamo trascinati nella calura estiva interpellando lo “specchio delle nostre brame” sul come riuscire a trasformare una sofferenza in risorsa, chiedendoci cosa ci ha insegnato, o stiamo imparando dal virus.

Questa domanda, probabilmente, ad oggi esce con estrema fatica dalle nostre labbra. Siamo stanchi, affamati, sfiduciati e arrabbiati. I canti dalle finestre, le chiacchiere a mezzo busto su Skype hanno lasciato il posto alle vetrine distrutte, alla ricerca di un capro espiatorio da sacrificare, un responsabile da additare. Personalmente trovo che la  responsabilità sia un concetto che nell’immaginario collettivo, con il passare delle lune, abbia assunto significati fuorvianti, legati al senso di colpa , al contrario, letteralmente, responsabile significa “colui che ha la risposta”.

Dove possiamo cercarle? Siamo sicuri di avere queste risposte nel nostro vocabolario interiore? Ebbene, se proviamo a tessere un filo rosso che passa tra la cruna della nostra identità ed attraversa le asole del concetto di  crisi vitale e di responsabilità condivisa, allora potremo meglio comprendere la  cura spirituale per il coronavirus. Per spirituale, disturbando le nostre radici latine, intendo spirare dal quale deriva  spiritus, cioè soffio, respiro, alito. Di fronte ad una malattia la cui caratteristica principale è proprio quella di colpire in modo grave e aggressivo i polmoni, prendersi cura dello spirito sembra una missione quantomeno non trascurabile. 

Come psicologo e psicoterapeuta sento il dovere, quindi, di suggerire una strada alternativa che possa permettere di affrontare gli effetti psicologici della pandemia: prendersi cura delle proprie riflessioni, degli stati d’animo, seppur contrastanti fra loro, che una simile situazione d’emergenza ci costringe a vivere e far convivere. Approfittare del cortocircuito per scendere dalla giostra dell’ignoranza, di coloro che ignorano il mondo interiore, per poter davvero guardare, osservare, capire. La cura, allora, non vuol dire normalizzare, rimettere al proprio posto le cose, ma anzi, il suo compito più nobile è quello di farci rialzare e far ricominciare la vita.

Esiste una parola meravigliosa, un verbo aramaico “qūm” che indica stare in piedi, sollevarsi  la cui forma ortografica (“kum”) derivante dalla traduzione greca del Vangelo viene utilizzata come   alzarsi, risorgere  (“Talita Kum” – Marco 5,41). Nei momenti difficili, apparentemente senza via d’uscita, costretti a gestire separazioni, cambiamenti, problemi sentimentali o lavorativi a volte non resta che tirarsi su e voltare pagina.

Dott. ANDREA PIANIGIANI