Gli Alberi monumentali del territorio di Gaiole in Chianti
di Mauro Carboni foto di Antonio Carloni
Eccoci arrivati alla terza e ultima puntata del nostro viaggio triennale tra gli alberi monumentali del Chianti: quella di Gaiole. Dopo i comuni di Radda e Castellina, quest’anno è la volta del territorio che partendo dai Monti del Chianti digrada verso la valle dell’ Arbia. Una delle teorie attribuisce l’origine del nome Gaiole a “gariola”, nome medievale della ghiandaia, volatile noto perché ghiotto di ghiande. Ecco che già indirettamente si parla di alberi: le querce, specie che producono ghiande, molto diffuse in zona.
La storia di Gaiole in Chianti è strettamente legata alla sua posizione di nodo viario nelle comunicazioni tra il Chianti e il Valdarno superiore. Proprio per questo, divenne la sede del mercato tra i vicini castelli.
Possiamo dire che gli alberi monumentali sono gli abitanti più longevi di questi luoghi, testimoni inconsapevoli di storie di viandanti, mercanti o semplici abitanti della zona.
Questo viaggio, come sempre, l’ho intrapreso con i miei amici e rodati compagni di viaggio: Renzo Centri grande conoscitore del territorio, Martino Danielli esperta guida naturalistica e Antonio Carloni valente fotografo. Il tutto come sempre fortemente voluto e sponsorizzato da un imprenditore illuminato: Augusto Bianciardi di Chianti General Service.
Se i territori di Radda e Castellina sono caratterizzati dall’avere piante monumentali prevalentemente radicate in luoghi naturali o in aziende agricole, Gaiole vanta i suoi vetusti arborei prevalentemente nei castelli o in antichi monasteri.

La prima tappa, infatti, la facciamo nel castello di Brolio, antico maniero che può vantare, tra le altre cose, di un magnifico giardino. Proprio al suo interno trovano spazio numerose piante tra le più belle e particolari che si possano incontrare in zona. Su tutte, ne spiccano tre: un cedro, un leccio e una sterculia. Tutte quante maestose, tutte quante con una circonferenza del tronco che supera i 3 metri. La sterculia è stata, tra tutte, quella che mi ha tolto il fiato. In primis perché stiamo parlando di una specie non autoctona, ma importata dal lontano Oriente ed estremamente rara in Italia. Un tempo, infatti, era usuale adornare il proprio giardino con piante provenienti da altri paesi, era questo un modo per dimostrare il proprio stato sociale. Da quanto più lontano proveniva la pianta, quanto più elevato era il rango di appartenenza del suo proprietario.
In questo caso, vista la rarità botanica, stiamo parlando di un proprietario estremamente facoltoso. La pianta esprime il massimo della sua magnificenza anche per l’attaccamento che manifesta alla vita, poiché il tronco, danneggiato da numerose ferite, appare completamente vuoto, lasciando solo ad un sottilissimo strato di legno l’arduo compito di sorreggersi.
Ferite che testimoniano segni evidenti della storia subita: il castello di Brolio, infatti, fu sede di un comando tedesco durante il secondo conflitto mondiale e la pianta, come le pareti del castello, subirono numerosi colpi di fucile e di mortaio ancora oggi visibili.

Lasciando il castello di Brolio alla volta di un altro maniero, quello di San Polo in Rosso, troviamo sulla strada il magnifico “Leccione” così appellato dai locali per la sua imponenza. Radicato in un punto panoramico, è quindi spesso soggetto fotografico di turisti che passano in zona. Non a caso fu luogo della scena finale del film di Bertolucci “Io ballo da sola”. Avvolta da un alone di mistero, la storia di questo luogo si intreccia con quella di Galileo Galilei. Sembrerebbe che qui vicino il padre della scienza moderna trascorse la sua gioventù: i genitori, infatti, erano proprietari di Borgo Grignanello, successivamente venduto dallo stesso scienziato. Un’antica storia narra che il famoso scienziato frequentò “la Torricella”, un casolare situato a poche centinaia di metri dal “leccione”. Sempre secondo la leggenda, Galileo ragazzotto, rischiò di morire poiché Ricasoli Gian Battista, suo amico burlone, rientrando per primo da una scampagnata con l’amico, disse al custode del palazzo che stava arrivando un brigante e di prepararsi a difendersi. Arrivò invece Galileo, ma il custode, credendolo il ladro, gli sparò. L’archibugio inspiegabilmente si inceppò e quindi il giovane ebbe salva la vita. Probabilmente il fato ci mise una pezza per salvaguardare un personaggio a cui il cui destino riserverà più nobile sorte.
Riprendendo l’auto e dopo aver attraversato le magnifiche colline senesi, eccoci arrivati al castello di San Polo in Rosso, luogo incantato dove, anche qui, gli alberi monumentali non mancano. Ma tra un corbezzolo degli inizi del 1900 e alcuni cipressi secolari, quello che ci ha ammaliati è un acero campestre cresciuto a forma di cesto. Le piante sono estremamente duttili e malleabili sotto la mano dell’uomo e questo esemplare lo dimostra egregiamente. Si trova in un podere agricolo di proprietà del castello oggi abbandonato e difficilmente raggiungibile. Probabilmente il mezzadro che lo abitava, oltre un secolo fa, ha cresciuto questo albero dando alla chioma la forma di un cesto. Difficile spiegarne il motivo, forse veniva impiegato come contenitore per le fascine che venivano prodotte. Inutile dire la bellezza che questo tipo di pianta manifesta ai nostri giorni.

Lasciato il castello, sempre in compagnia dei miei preziosi amici, dopo aver sostato per un frugale pranzo in un’osteria locale, ci dirigiamo verso Badia Coltibuono dove ci aspettano due esemplari arborei davvero di primissimo livello. Il primo è uno dei cedri del libano più spettacolari che ho mai visto nella mia vita: la circonferenza del fusto misura oltre 9 metri e l’area interessata dalla chioma, che raggiunge i 20 metri di altezza, ricopre una superficie di oltre 700 mq. Difficile stimare la sua età, ma si ritiene che possa tranquillamente superare i due secoli di vita. Non sappiamo chi lo abbia piantato, se i monaci benedettini vallombrosani oppure il banchiere fiorentino Michele Giuntini che divenne proprietario del convento nel 1846. Certo è che si è trovato bene in questo luogo il cui nome denota di un terreno particolarmente fertile, dove si ottengono coltivazioni di buona qualità.
Dopo aver a malincuore salutato questo vetusto amico, ci appropinquiamo nel vicino bosco dove troviamo un castagno dalle fattezze più minute, anche se dall’età non certo più giovane. Si tratta di un albero chiamato “castagno dell’abate”, in quanto si trova lungo il sentiero che facevano i monaci per pregare.
I castagni col progredire degli anni tendono a diventare cavi internamente, diventando dimore ideali per fate e gnomi del bosco oppure per i puffi. È sicuramente il caso di questo albero che sembra anche portare i segni di un vecchio innesto subito da parte dell’uomo in gioventù. L’innesto è una pratica impiegata in agricoltura simile al trapianto d’organi. Si inserisce la pianta scelta, ad esempio caratterizzata per dimensione o bontà dei frutti, su di un’altra simile, ma non così fortunata. In questo modo, un castagno probabilmente selvatico è diventato un castagno in grado di produrre castagne di buona pezzatura utili per la produzione di farina. Non dimentichiamoci che un tempo questa pianta era fonte insostituibile di alimento, tanto che ha guadagnato l’appellativo di “pane dei poveri”.
